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Sta Scherzando, Padre?

Язык: Итальянский
Тип: Текст
Год издания: 2021
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Sta Scherzando, Padre?
Marco Fogliani

La raccolta include tutti i racconti dell'autore in cui preti, suore, frati o comunque la Chiesa in generale occupano un ruolo di una certa rilevanza.

Di seguito, in ordine alfabetico, l'elenco dei racconti inclusi nella raccolta:

ALICE, QUELLA PICCOLA FIGLIA DI ...

ALLA PROSSIMA TOCCA A ME

FRA CIRINO E DON CICCILLO

FURTO IN CHIESA

IL PESO DI UN SEGRETO

IL SANTO DEI MIRACOLI

L’AMORE DI ROMEO

LA GITA AL SANTUARIO

LA PRIMA IDEA DEL CINEMA

LA TERZA PRIMAVERA

MISSIONE COMPIUTA, SORELLA!

PAOLO E NIKOLAJ

Si fa presente che, dato il carattere tematico della raccolta, alcuni di questi racconti potrebbero essere inclusi anche in altre raccolte dello stesso autore.

Marco Fogliani

Disegno di copertina di Marco Fogliani

Aggiornamento al: 18/11/2021

ALLA PROSSIMA TOCCA A ME

La zia Betty: e chi se ne ricordava? Era la sorella zitella della zia Rosy con cui, da che ne sapevo io, aveva sempre vissuto come fossero una cosa sola, finché diversi anni prima la Rosy era venuta meno e la Betty le era sopravvissuta. Da allora in poi il silenzio, nulla: nessuna notizia di lei come dei figli della Rosy - Giulia, Romina e Pietro - il ramo monzese della nostra famiglia, che presumibilmente avevano continuato a trattarla come di fatto era stata per tutta la sua vita e come meritava di essere considerata: una specie di estensione e prolungamento della loro madre.

La zia Betty: e chi ci pensava più? Finché l’altro giorno non è arrivato il messaggio che diceva che ci aveva lasciato anche lei. A quest’ora avrà avuto novantaquattro, novantacinque anni. Novantasei già compiuti, concludemmo parlandone al telefono con mio fratello e cercando di tirare fuori da due teste un’unica ma più accurata memoria.

In quei giorni mi trovavo da diverse settimane a Milano in trasferta per lavoro. Milano e Monza sono vicine: una fortuna che zia Betty fosse morta proprio quel giorno, pensai - per quanto morire forse non possa mai considerarsi una fortuna.

Avrei potuto partecipare al suo funerale, rivedere qualche cugina che ormai, alle nostre età, si rivedono solo per occasioni molto importanti e il più delle volte non allegre, come in questo caso. Avrei potuto simbolicamente rappresentare il dolore di papà e di tutti i suoi figli e nipoti per la scomparsa dell’ultima zia ancora in vita, dell’ultima ormai ex superstite di cinque tra fratelli e sorelle sparpagliatisi per l’Italia, ciascuno dei quali, a parte Betty e Rosy, aveva seguito un destino tutto suo.

Giulia e Romina erano al primo banco della fila di sinistra, in lutto nero di tutto punto con cappellino e veletta.

“Condoglianze”, dissi a ciascuna di esse mentre le baciavo sulle guance.

Sembravano affrante ma non disperate, difficile pensare che non si aspettassero che a quell’età potesse capitare qualcosa del genere, anche se non c’è mai abbastanza tempo per riuscire a prepararsi alla morte di qualcuno.

“Grazie, Tommaso”, mi rispose Giulia.

“Anche a nome dei miei fratelli”, aggiunsi con Romina.

“Grazie, salutaceli tutti. E anche a casa, tutti quanti”, mi rispose Romina.

Nel mentre, da chissà dove, arrivò anche Pietro e prese posto sulla loro stessa panca. Feci anche a lui le condoglianze, poi andai a sedermi dietro di lui.

Mi sistemai vicino a un’altra signora in lutto, molto anziana, che salutai rispettosamente anche se non sapevo esattamente chi fosse. Forse una parente, la badante: o magari un’amica speciale. Credo che poche persone al mondo soffrissero veramente della perdita di zia Betty.

Sull’altra panca in prima fila riconobbi a fatica, in compagnia di un altro volto dall’aspetto familiare a cui però non riuscii ad associare un nome, mio cugino Claudio. Era lì per conto di tutto il ramo siciliano della famiglia. Il mio posto, pensai, avrebbe dovuto essere di fianco a loro, sulla loro panca mezza vuota, ma non volli muovermi da dietro alle cugine. L’atmosfera era impregnata di lutto e di dolore, e in quel momento spostarsi da una parte all’altra della chiesa mi sarebbe sembrato irriverente e un po’ sacrilego, quasi come guardare l’orologio o semplicemente pensare ad altro.

Quando un campanello annunciò l’inizio della funzione, la grande chiesa buia si illuminò un poco, ma l’atmosfera rimase tetra.

C’erano poche altre persone - forse cinque o sei banchi in tutto per giunta mezzi vuoti - la maggior parte un po’ distanziate dietro a noi parenti e congiunti. Le loro espressioni, il loro atteggiamento mi sembravano voler dire “la conoscevo appena”, oppure “sono qui per sua nipote”, o “qualcuno dei vicini non poteva non esserci”. Un paio di ragazzi sembrava quasi che fossero lì per sbaglio, forse per guardare la chiesa o in attesa di parlare col prete. O forse invece io non ero così bravo a leggere i pensieri dai loro volti. Sperai tanto che non mi si leggesse in faccia che ero lì principalmente perché mi trovavo nelle vicinanze, e che in realtà da un pezzo negli ultimi anni non mi era capitato di pensare alla zia Betty.

Mentre entrava l’officiante, un vecchietto bassino venne a sistemarsi accanto a me. Lui sì piangeva a dirotto, spontaneo, senza finzioni. Doveva essere qualcuno che le voleva molto bene, pensai. Chissà, magari un vecchio amore. Anche le zitelle probabilmente hanno le loro storie d’amore nel cassetto. O forse una tenera, platonica e recente avventura galante tra due romantici attempati. Elegante, dignitoso, lo avrei detto più sui novanta che sugli ottanta.

Chissà perché vedendolo così commosso mi vennero in mente alcune cose che avevo sentito dire sulla zia Betty, ma che fino ad allora avevo considerato solo come dicerie e pettegolezzi: la consistenza del suo patrimonio, maggiore di quanto ci si potesse aspettare; e la presenza da qualche parte di un suo testamento. Chissà: magari, a sorpresa, l’unico beneficiario sarebbe stato quel vecchietto innamorato di lei, il cui pianto sincero sembrava proprio sgorgargli dal cuore.

Durante tutta la breve funzione piansi anch’io, non solamente per la presenza contagiosa di quel vecchio che non smise di piangere un istante. Ma non lo feci per la zia Betty bensì, come sempre nelle cerimonie funebri a cui partecipavo, per i miei cari al cui ultimo saluto un destino dispettoso mi aveva impedito in modi diversi di essere presente: al funerale di mia madre e a quello della piccola Graziella.

Quel povero vecchio lì a fianco, che ininterrottamente piangeva molto più di me, in qualche modo esercitò su di me un effetto calmante e mi risollevò il morale. Dopo la benedizione finale non riuscii a trattenermi dal cercare di consolarlo.

“Coraggio, non faccia così.” E poi, incuriosito, gli chiesi: “La conosceva bene, mia zia Betty?”

“Io? Si figuri: da quando eravamo piccoli!”, rispose sempre singhiozzando. “Si può dire che siamo cresciuti insieme”, aggiunse.

Strano, pensai tra me, allora anche lui come lei era originario di Otricoli.

“Ma presto ti raggiungerò, mia cara. Il prossimo sarò io, ormai sta per arrivare il mio turno, se solo al mondo c’è un po’ di giustizia.” E coprendosi il volto con le mani ritornò alle sue lacrime singhiozzanti.

Uscendo dalla chiesa, dopo aver firmato il libro delle presenze, mi trovai per caso accanto a Pietro. Siccome avevo intenzione di accompagnarli al cimitero, gli chiesi:

“La portate dove sta la zia Rosy?”. E aggiunsi: “Se può essere utile io ho la macchina vuota, e se serve potrei portare qualcuno”.

“Sì, magari. Bisognerebbe accompagnare il prete, e se possibile anche la signora Bice, quella che stava seduta dietro a Giulia. Penso che verrebbe volentieri. Se aspetti un attimo provo a chiederglielo”, mi disse.

”Va bene. E quell’altro signore là, che ha pianto per tutta la funzione di fianco a me, credi che voglia venire?”. Accennai a quel vecchio ancora inginocchiato in preghiera nello stesso banco di prima.

“Non saprei, non lo conosco. Non ho idea di chi possa essere”, mi rispose Pietro.

Pietro avvisò il sacerdote e la signora Bice, anch’essi lì nei pressi dell’uscita della chiesa. Così in pochi minuti, mentre il feretro veniva caricato sul carro funebre, dietro di esso si era organizzato il piccolo corteo di tre o quattro automobili pronte a seguirlo verso il cimitero.

Durante il non breve tragitto io, don Sergio e la signora Bice rimanemmo perlopiù in silenzio, se non per qualche parola di circostanza che ci si può scambiare tra tre sconosciuti in un’occasione del genere. Ma io avevo ancora in mente l’immagine di quell’anziano signore che durante la funzione aveva pianto vicino a me come una fontanella.

“Scusatemi”, chiesi loro a un certo punto, “ma quel vecchietto che stava con noi in seconda fila singhiozzando tutto il tempo, per caso sapete chi sia? Mi ha detto che conosceva la zia Betty sin da piccolo, ma stranamente Pietro non mi ha saputo dire chi fosse.”

“Ah, il signor Gervaso”, rispose don Sergio. “Vedo che ha avuto modo di parlargli. Sì, lo conosco abbastanza bene, è un nostro affezionato parrocchiano. Sono diversi anni che non si perde un funerale che sia uno, e ad ognuno piange e si dispera come se fosse il proprio. Non è cattivo; e se devo dire, rende i funerali più sentiti e partecipati anche da parte degli altri. Però mi sembra in ottima salute, evidentemente questo lo fa stare bene. Le avrà anche detto che la prossima volta toccherà a lui, che ormai è arrivato il suo turno. Lo dice sempre. E prima o poi finirà per azzeccarci, una volta o l’altra. In ogni caso noi preti della parrocchia siamo già psicologicamente preparati per quel momento. Per il suo funerale ci saremo - come per chiunque altro, naturalmente.”

IL SANTO DEI MIRACOLI

Ammetto che in quel periodo il mio umore non poteva certo dirsi buono. Per problemi alle ossa la mamma di Debora, la mia compagna, era costretta tra il letto e la sedia a rotelle già da parecchio tempo, e le previsioni degli specialisti non lasciavano sperare grandi miglioramenti. Debora ovviamente ne subiva le conseguenze, ed in parte anch’io. Nei momenti liberi eravamo sempre da sua madre. Mai un’occasione di svago, di distrazione; non so quanto tempo ormai che non andavamo al cinema, o che la domenica non si faceva una gita.

Un giorno Debora mi annunciò che aveva programmato per noi una uscita domenicale. Ne fui contento, ma solo finché non mi specificò che sarebbe stata una specie di pellegrinaggio: una visita alla Basilica del Santo a cui sua madre era molto devota. La malattia della madre aveva risvegliato in Debora quel poco di religiosità e bigotteria che, acquisite nell’infanzia, giacevano in lei sopite da anni. Conoscendo il mio ateismo e scetticismo, non mi aveva mai proposto niente di simile. Ero molto preoccupato: ma lo fui ancora di più quando, accennando alla possibilità di non andarci, mi disse senza esitazione che sarebbe andata ugualmente, da sola. Così decisi di accompagnarla.

Il viaggio in autobus lo trovai pessimo. Andammo con una parrocchia (sinceramente non so dire quale né che agganci ci avesse, ma credo nessuno), un gruppo di scalmanati che, chissà mai cosa avevano da essere allegri, giocavano, cantavano e schiamazzavano in continuazione. Ogni tanto qualcuno, vedendoci appartati ed apparentemente seri, cercava inutilmente di coinvolgerci; ma era chiaro che non avevano nessun rispetto per chi la pensava diversamente da loro, e anzi non ritenevano neanche possibile che qualcuno potesse avere convinzioni differenti dalle loro in materia religiosa. Finché venne da noi un sacerdote, credo, dicendoci che non ci aveva mai visto e chiedendoci di noi. Debora gli spiegò la situazione di sua madre e lui, molto raccolto e compunto, rispose che ci comprendeva. (Ma non capiva certamente me!) Comunque gli fui grato perché almeno, dopo quella visita, nessuno più ci disturbò né tentò di coinvolgerci.

Arrivati alla Basilica, pioveva. Io non volli entrare ed aspettai fuori il ritorno di Debora e degli altri, sotto una specie di tettoia in compagnia di altri turisti sconosciuti. Fu lì che mi imbattei in uno squinternato dal buffo cappello rosso e verde che, seppi in seguito, era un po’ lo scemo del paese ed era conosciuto da tutti con il nome o soprannome di Giovenale. O meglio, fu lui che scelse di battibeccare con me. Lo stavo già osservando perché, incurante della pioggia che continuava a cadere insistente e gesticolando come se parlasse con qualcuno, descriveva sul sagrato degli strani giri senza logica. Poi ad un tratto, come se avesse finalmente trovato un senso al suo zigzagare, venne da me e, quasi a continuare un discorso che in realtà non era mai iniziato:

“… perché il Santo che abbiamo noi non è soltanto il nostro Patrono, un santo come tanti altri. Lui è davvero potente. Quando ci si mette può fare qualunque cosa. Parlo dei miracoli, sì: di quelli veri. Se sei venuto a chiedere una grazia, facile che lui te la conceda anche a costo di fare un miracolo.”

Io ascoltavo senza mostrare di dargli troppa attenzione, e resistetti bene alla tentazione di fare qualche commento sarcastico. Ma quello proseguì:

“Però devi almeno accendergli un cero, dargli una monetina. Sennò il miracolo magari non arriva.”

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